Censura e Social Media: le piattaforme più penalizzate

Un’indagine di Freedom House condanna il ‘silenzio’ imposto dalle principali piattaforme di networking a livello globale.
Siamo tutti ben coscienti del fatto che, quella che stiamo vivendo, passerà alla storia come l’era dei Social Network. Un momento storico non privo di paradossi però, che pone sulla bilancia, da una parte, l’utopia di un villaggio finalmente globale (con tutti i suoi pregi e i suoi difetti), nel quale barriere e limitazioni spazio-temporali sono state ridotte sensibilmente, dall’altra, manovre coercitive e (semi?) totalitarizzanti, attuate da governi pseudo-democratici il cui fine ultimo è rinforzare, se non addirittura edificare ex novo, gli stessi limiti alla libertà di espressione e informazione che Internet avrebbe intenzione di polverizzare.
In questa battaglia manichea, sono proprio i Social Media a farne per primi le spese, per la loro natura di agorà virtuale, senza confini, non-luogo deputato a diffondere Informazione e Conoscenza (se sfruttato con intelligenza e raziocinio). Abbiamo già in passato parlato di censura sui Social Media, riportando notizie come la limitazione imposta a Twitter da parte di Erdogan (e non solo in Turchia), oppure la chiusura totale di alcune piattaforme social durante la cosiddetta “Primavera Araba”. I dati parlano chiaro, come mostra l’infografica realizzata da Statista sulla base dei numeri condivisi da Freedom House:
Secondo il report Freedom Net 2016 diffuso dall’organizzazione, la libertà su Internet è in costante declino, da sei anni a questa parte. Nel mirino dei governi ci sono i social network tradizionali ma anche le app di messaggistica istantanea e VoIP. Lo scopo, come sempre, è di mettere a tacere comunicazioni e proteste anti-governative, che trovano nei media sociali lo strumento ideale per amplificarne la portata e diffusione.
Nella triste classifica della censura, è WhatsApp a pagare il prezzo più alto, bloccato in ben 12 Paesi, a seguire Facebook, con 8 casi di censura in altrettanti Stati nazionali. Non poteva mancare Twitter, per sua natura da sempre associato all’Informazione puntuale e tempestiva (forte anche dell’appendice Periscope). Ovviamente la lista è ben più lunga e, oltre ai casi di chiusura degli accessi alle piattaforme, elenca anche quelli in cui degli utenti, spesso semplici cittadini, sono stati arrestati a causa di post dal contenuto politico, sociale o religioso (utenti iscritti a Facebook arrestati in 27 Paesi contro le 11 Nazioni ad aver perseguito users di WhatsApp). Insomma, democrazia, dialogo, rispetto dei diritti, sono ancora un lusso per molti Stati.
E non pensate che si stia parlando solo di realtà remote, di Paesi solitamente etichettati come “del Terzo Mondo”, oppure “arretrai” o ancora “fondamentalisti e fanatici”. Nella lista di cui sopra infatti vengono annoverate realtà molto vicine a noi, come appunto Turchia e Russia. Proprio il mese scorso infatti, il 17 novembre 2016, il Roskomnadzor (Servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa) ha avanzato la proposta di bloccare LinkedIn partendo da una presunta violazione della legge sull’archiviazione dei dati, da parte del social network professionale. Sarebbe un duro colpo per LinkedIn, che conta circa 6 milioni di utenti russi. Non è che il Governo stia procedendo con il piano di chiusura e limitazione di Digital Companies Made in US, sospinto ulteriormente dalla recente acquisizione di LinkedIn da parte di Microsoft (se consideriamo che, negli ultimi due anni, sono stati via via posti a embargo prodotti come Bing.com, Cortana e altri software create dall’azienda di Redmond)?
Tommaso Lippiello