La procura di Venezia indaga sul caso Paragon: attivisti sotto sorveglianza - Socialmedialife.it
Il caso Paragon si arricchisce di nuovi sviluppi, coinvolgendo la procura di Venezia, che ora si occupa di una dettagliata querela presentata da Beppe Caccia, cofondatore di Mediterranea Saving Humans. La denuncia colpisce non solo l’attivismo, ma solleva interrogativi su possibili abusi di potere, con accuse che mettono in luce i comportamenti delle agenzie di intelligence. La controversia invita a riflettere su diritti civili e attività di soccorso in mare, in un contesto politico e sociale sempre più teso.
La querela, presentata oggi presso la procura di Venezia, è composta da quattordici pagine e include il cellulare utilizzato da Caccia, il quale ha ricevuto un avviso da Meta su possibili attività di spionaggio a suo carico. Il dispositivo è stato oggetto di copia forense, evidenziando la serietà della denuncia. I reati ipotizzati sono di notevole importanza: si fa riferimento a accesso abusivo a sistemi informatici, abusiva installazione di apparati e interferenze illecite nella vita privata. Si tratta di un’accusa che coinvolge direttamente l’uso di un software avanzato, Graphite, sviluppato da un’azienda israeliana, il quale è destinato solo ai governi di paesi considerati “democratici” e non dovrebbe essere impiegato contro giornalisti e attivisti.
Nella querela, Caccia denota che l’attuale silenzio da parte del governo è preoccupante ma gli sviluppi tecnici e giuridici potrebbero svelare la verità dietro queste intercettazioni, ponendo domande cruciali: chi ha ordinato tali attività e qual è stata la motivazione? La denuncia non solo evidenzia la potenziale illegalità, ma chiama in causa l’operato di agenzie statali, rendendo il caso ancora più complesso.
La querela avanzata da Caccia offre due principali ipotesi riguardo alla natura delle intercettazioni. La prima suggerisce che tali attività di sorveglianza siano illegali, portando quindi a una sospensione del contratto tra Paragon e l’Italia, come confermato da fonti governative. In alternativa, la seconda ipotesi è che possano derivare da operazioni legittime condotte da uno dei servizi di intelligence, autorizzate dal procuratore generale di Roma, Giuseppe Amato. È emblematico il fatto che l’operazione legittima può solo avvenire in situazioni eccezionali, come questioni di mafia o terrorismo.
La differenziazione tra le due ipotesi alimenta un dibattito pubblico su quale debba essere il confine tra sicurezza nazionale e diritti civili. La legge stabilisce chiaramente delle scadenze temporali per le operazioni di sorveglianza, imponendo che non possano durare indefinitamente. Tuttavia, alcuni dettagli emersi dai ricercatori di Citizen Lab indicano che l’attività di spionaggio possa essere iniziata oltre un anno fa. Questo solleva ulteriori interrogativi su come e perché tali operazioni possano essere state condotte oltre il termine stabilito dalla legge.
La denuncia solleva vari interrogativi sullo scopo e sulla legittimità dell’uso del software di sorveglianza Paragon. Gli attivisti coinvolti, inclusi Caccia e i suoi colleghi, esprimono preoccupazione sul fatto che l’operazione possa avere lo scopo di intimidire esplicitamente la loro attività. L’agenzia di intelligence ha ammesso possedere il software, ma sostiene di averlo utilizzato nel rispetto della legge.
In particolare, si evidenzia la potenziale distorsione del concetto di sicurezza nazionale, dove attività umanitarie e di soccorso possono trasformarsi in “minacce” per lo stato. La querela di Caccia chiede chiarimenti su come questa logica si applichi alle missioni di Mediterranea, le quali si concentrano sul soccorso di individui vulnerabili nel Mediterraneo e sull’esposizione delle violazioni dei diritti umani, legate a responsabilità statali.
Le preoccupazioni làintorno all’operazione di spionaggio si inquadrano in un periodo di crescente tensione per le organizzazioni umanitarie. Gli attivisti di Mediterranea hanno denunciato varie modalità di criminalizzazione delle loro attività, segnalando che tali attacchi possono avere origine politica, poiché si oppongono a politiche governative più restrittive nel campo della solidarietà.
Il fatto che queste preoccupazioni non siano limitate a una sola organizzazione, ma coinvolgano un numero crescente di attivisti, rimarca l’importanza di un intervento istituzionale per chiarire le linee guida e i limiti delle agenzie di intelligence. Le istituzioni coinvolte devono affrontare l’accusa di abusare dello strumento della sicurezza per reprimere iniziative di solidarietà. Le domande restano sul motivo per cui le azioni di soccorso e di tutela dei diritti umani possano essere viste come minacce alla sicurezza nazionale.
La questione non è solo giuridica, ma sociale e culturale, e dovrà essere monitorata da vicino, coinvolgendo sia il pubblico che le autorità preposte, per garantire un equilibrio tra sicurezza e libertà. Il caso Paragon rappresenta un campanello d’allarme e una possibilità di avviare un dibattito sulle attuali politiche di sicurezza e il loro impatto sulle azioni umanitarie nel nostro Paese.