Il 24 aprile 1970, il film “Un uomo chiamato cavallo”, diretto da Elliot Silverstein e tratto dall’omonimo racconto di Dorothy M. Johnson, debuttò nei cinema, segnando un cambiamento significativo nella narrazione cinematografica riguardante i nativi americani. Questo lungometraggio si inserisce in un periodo storico caratterizzato dalla contestazione giovanile e da una crescente critica verso le rappresentazioni stereotipate della Frontiera americana. Con una trama avvincente e una nuova prospettiva sui popoli indigeni, il film ha avuto un impatto notevole sia sul pubblico che sull’industria cinematografica.
La trama di un uomo chiamato cavallo
“Un uomo chiamato cavallo” segue le vicende di Sir John Morgan, interpretato da Richard Harris, un nobile inglese che decide di esplorare il selvaggio West. Durante la sua avventura, Morgan viene catturato dalla tribù dei Dakota dopo che la sua spedizione subisce un attacco mortale. Inizialmente trattato con disprezzo dai suoi carcerieri e considerato poco più di una bestia da soma, Morgan affronta dure prove durante la sua prigionia.
Nel villaggio dei Dakota incontra Batise , un francese già prigioniero della tribù. Nonostante i tentativi falliti di fuga e l’iniziale ostilità nei suoi confronti, Morgan comincia a comprendere le tradizioni e i costumi del popolo nativo. Viene soprannominato “Cavallo” ma sviluppa anche una relazione speciale con Cervo-che-corre . Determinato a diventare parte della comunità Dakota, partecipa alle loro battaglie contro gli Shoshoni e si sottopone al rituale della Danza del Sole per guadagnarsi rispetto.
La storia culmina in uno scontro decisivo contro gli Shoshoni dove Morgan dimostra le sue capacità come leader strategico ma deve affrontare gravi perdite personali lungo il cammino.
Rappresentazione innovativa dei nativi americani
“Un uomo chiamato cavallo” è considerato pionieristico per aver presentato membri autentici delle tribù Oglala e Dakota nel cast principale del film. Questo approccio ha contribuito a dare voce ai protagonisti storicamente emarginati dal cinema hollywoodiano tradizionale. A differenza delle rappresentazioni precedenti che ritraevano i nativi come figure alienanti o nemiche sanguinarie destinate alla sconfitta sotto i colpi degli eroi bianchi come John Wayne o Gary Cooper, questo film offre uno sguardo più umano sulle culture indigene.
La pellicola utilizza anche la lingua originale dei nativi invece di ricorrere a forme linguistiche imprecise o inventate per rendere credibile l’interazione tra personaggi bianchi e indigeni. La fotografia curata da Robert B. Hauser cattura magnificamente gli scenari selvaggi dell’epoca ed enfatizza l’importanza della natura nel contesto narrativo.
Questa nuova visione non solo sfida gli stereotipi consolidati ma invita anche lo spettatore a riflettere su questioni più profonde legate all’identità culturale e alla dignità umana degli indigeni d’America.
L’interpretazione potente di richard harris
Richard Harris interpreta John Morgan con grande intensità emotiva; la sua performance è stata acclamata dalla critica ed è considerata uno dei punti forti del film. Il suo personaggio evolve significativamente durante la narrazione: inizialmente arrogante ed egocentrico, impara ad apprezzare valori quali solidarietà e coraggio attraverso le interazioni con i membri della tribù Dakota.
Nonostante ciò che può apparire come paternalismo nella figura dello straniero divenuto leader tra i “selvaggi”, Harris riesce a trasmettere complessità emotive al suo ruolo; mostra vulnerabilità mentre naviga tra due mondi diversi – quello civilizzato europeo ed quello indigeno americano – rendendo credibile questa trasformazione personale profonda.
Tuttavia non mancano critiche riguardo alla rappresentazione dell’archetipo del “white savior”, ovvero l’idea secondo cui solo attraverso l’intervento dell’uomo bianco possa esserci redenzione o salvezza per culture considerate inferiori dagli standard occidentali dominanti all’epoca.
L’eredità duratura del genere western
Con incassi pari a 45 milioni dollari dell’epoca, “Un uomo chiamato cavallo” ha segnato non solo un successo commerciale ma anche culturale nel panorama cinematografico americano degli anni ’70. Il suo impatto ha aperto la strada ad altri capolavori significativi come “Piccolo Grande Uomo” di Arthur Penn, “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” di Sydney Pollack, “Soldati Blu” di Ralph Nelson. Questi lavori hanno continuato ad esplorare temi simili sulla Frontiera americana, contribuendo così alla demitizzazione delle narrative classiche associate al genere western.
Richard Harris riprese successivamente il ruolo in due sequel: “La vendetta dell’uomo chiamato cavallo” nel 1976 ed “Shunka Wakan – Il trionfo d’uno uomo chiamato cavallo” nel 1983. Anche se oggi potrebbe sembrare datata rispetto agli standard contemporanei, quest’opera rimane fondamentale nell’evoluzione narrativa sul tema delle relazioni interculturali negli Stati Uniti.
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