Il Festival Altri Mondi / Altri Modi, in programma a Torino dal 10 al 13 aprile, si prepara ad affrontare temi di grande attualità. Tra i contributi più significativi c’è l’articolo di Marco Boscolo, giornalista e science writer, che esplora la questione della decolonizzazione della scienza. Boscolo parteciperà al dibattito “Non neutralità della scienza: l’accademia in dialogo con l’Intifada studentesca” venerdì 11 aprile alle ore 18.
La storia di Alexandre Yersin e il colonialismo scientifico
Nel contesto del colonialismo scientifico, la figura di Alexandre Yersin emerge come un caso emblematico. Alla fine dell’Ottocento, questo medico svizzero si trovava a Hong Kong per indagare su un’epidemia di peste bubbonica. Durante le sue ricerche, insieme al collega giapponese Shibasaburō Kitasato, identificò il bacillo responsabile della malattia – oggi noto come Yersinia pestis. Le sue indagini furono condotte in un clima teso e competitivo tra potenze coloniali europee.
A differenza dei suoi contemporanei che tornavano in Europa per godere dei successi ottenuti nei territori colonizzati, Yersin decise di stabilirsi permanentemente nell’Indocina. Morì nel 1943 a Nha Trang dopo aver investito gran parte delle sue risorse nella comunità locale piuttosto che nel suo paese d’origine. Questa scelta contrasta nettamente con quella degli altri scienziati dell’epoca che spesso sfruttavano le risorse locali senza restituire nulla alle popolazioni autoctone.
La storia di Yersin mette in luce una forma subdola di colonizzazione scientifica: gli studiosi europei hanno frequentemente drenato conoscenze dalle culture locali mentre catalogavano esemplari botanici e zoologici per costruire carriere accademiche nelle loro nazioni d’origine. Questo processo ha generato una disparità significativa nella distribuzione delle conoscenze scientifiche globalmente riconosciute.
Negli ultimi anni è emerso un acceso dibattito nelle università delle ex-colonie riguardo alla necessità di riconsiderare questo approccio coloniale alla scienza e ai suoi effetti duraturi sulle società africane e asiatiche.
Il movimento #ScienceMustFall
Un video virale girato all’Università di Cape Town nel 2016 ha dato vita al movimento #ScienceMustFall , evidenziando le ingiustizie strutturali insite nella pratica scientifica moderna. Gli studenti neri hanno sostenuto che la struttura attuale della scienza continua ad essere oppressiva nei confronti degli africani poiché i centri decisionali sono concentrati principalmente in Europa e Stati Uniti.
Questo movimento è nato dall’esigenza crescente tra gli studenti universitari africani non solo di contestare la rappresentazione eurocentrica del sapere ma anche per rivendicare uno spazio equo all’interno del panorama accademico globale. L’hashtag #ScienceMustFall trae origine da precedenti movimenti sociali come “Rhodes Must Fall”, creato nel 2015 per chiedere la rimozione della statua del controverso Cecil Rhodes dall’università sudafricana.
Le idee espresse dagli studenti sudafricani hanno trovato eco anche altrove; manifestazioni simili sono state organizzate anche a Melbourne durante eventi legati alla March for Science, dimostrando così una connessione globale contro le disuguaglianze presenti nell’ambiente accademico internazionale.
Decolonizzare la scienza: aspetti materiali e immateriali
Il concetto stesso di decolonizzazione non si limita solo alla restituzione fisica degli oggetti culturali o naturali prelevati dai paesi colonizzati; implica anche una revisione profonda delle pratiche scientifiche odierne ed un riconoscimento dei saperi tradizionali locali spesso ignorati dalla narrativa dominante occidentale.
Naturalisti storici come René Malaise e Gustav Eisen raccolsero campioni da diverse parti del mondo durante il XIX secolo; molti dei loro esemplari rimangono ancora oggi inutilizzati nei magazzini museali europei anziché essere studiati dai paesi d’origine dove sono stati raccolti. Questo solleva interrogativi sul valore attribuito alle conoscenze tradizionali rispetto ai risultati ottenuti attraverso metodi occidentali standardizzati.
Rohan Deb Roy sottolinea come sia fondamentale considerare non solo gli aspetti materiali legati agli oggetti ma anche quelli immateriali relativi ai saperi ancestrali delle popolazioni indigene che possono contribuire significativamente allo sviluppo scientifico contemporaneo senza dover passare attraverso filtri eurocentrici o razzisti.
Inoltre, emergono problematiche relative all’accessibilità alle istituzioni educative superiori da parte degli studiosi provenienti da ex-colonie; molte volte questi ricercatori collaborano con colleghi stranieri ma raramente ottengono visibilità o riconoscimenti adeguati per il loro lavoro sul campo rispetto ai partner occidentali coinvolti negli stessi progetti.
La manipolazione pseudoscientifica nella storia italiana
Un altro aspetto critico riguarda l’utilizzo distorto della scienza per giustificare politiche razziste durante periodi storici bui come quello fascista italiano negli anni ’30 del Novecento. La Dichiarazione sulla razza approvata dal Gran Consiglio fascista segnò l’inizio dell’introduzione legislativa basata su criteri raziali, creando divisione tra cittadini italiani.
Alcuni intellettuali cercarono addirittura supporto teorico tramite pubblicazioni pseudo-scientifiche, mentre altri fuggivano all’estero temendo persecuzioni. Queste posizioni trovarono terreno fertile grazie ad argomentazioni pseudoscientifiche presentate sotto forma “scientifica”, utilizzate poi dalle autorità italiane contro minoranze etniche considerate inferiori.
Questa eredità storica ci invita a riflettere sull’importanza critica dell’etica nello sviluppo delle discipline scientifiche moderne, affinché non ripetano errori già commessi nel passato. È essenziale promuovere inclusività ed equità affinché tutte le voci possano contribuire equamente allo sviluppo collettivo del sapere umano.
Le sfide future nella decolonizzazione
Marco Boscolo evidenzia infine quanto sia cruciale affrontare queste questioni complesse legate alla decolonizzazione scientifica. Non basta semplicemente richiedere giustizia materiale; occorre lavorare insieme verso modelli alternativi capaci di integrare diverse prospettive culturali senza sacrificare efficacia metodologica.
L’attuale scenario mostra chiaramente quanto siano necessarie nuove forme collaborative fra ricercatori provenienti da contesti diversi: ciò significa ascoltare attentamente esperienze passate dimenticate affinché possano arricchire ulteriormente lo studio contemporaneo. Solo così sarà possibile costruire ponti solidali tra culture differenti superando divisioni storiche radicate nel tempo.